Strani effetti del monte sul corpo di Anna K
Incuneata nell’anfratto, Anna resisteva al furore dei venti meglio di sua maestà il ghiacciaio in persona: merito del suo nuovo torace.
Adagiata sulla roccia come una macchia di muschio, la giovane donna aveva infilato le unghie, dure come chiodi d’acciaio, nella fessure della pietra. Le sue fortissime mani sorreggevano il suo peso senza sforzo, l’articolazione delle caviglie le consentiva di ruotare i piedi in posizioni un tempo ritenute impossibili: non a lei, cui la natura aveva regalato un corpo mutevole.
Figlia di un cartografo ossessionato dall’immutabilità delle mappe, Anna K., costretta a seguire il padre nelle sue scorribande topografiche, era cresciuta in Pakistan. Si accorse dei cambiamenti che avvenivano in lei la prima volta che raggiunse il massiccio del Karakorum. Ai piedi di quel sensazionale ammasso di roccia le sue mani avevano cominciato a dolerle; contratti dagli spasmi i tendini delle dita si erano infiammati, dalle unghie distillava uno strano lattice nerastro che, al contatto con l’aria gelata, subito si era solidificato formando una protuberanza durissima. La schiena le prudeva come se sotto la pelle si agitasse un demone che risaliva lungo la spina dorsale; nel tentativo di placare il prurito, le nuove unghie di Anna le avevano inferto quattro sanguinolente e profonde ferite, come di rasoio male affilato. Capì quasi subito che era il monte a provocarle quei tormenti; il monte che la chiamava a se e preparava il corpo alla salita. Terrorizzata da quell’orribile attrazione Anna riparò in Danimarca lasciando il padre alle sue ossessioni.
Fu il desiderio a fare il resto.
Anna cominciò presto a soffrire della piattezza del paesaggio delle pianure. Ambiva a salire, a soddisfare una volta per tutte le tensioni del suo corpo. Lontano dalle vette il suo fisico era rapidamente collassato in quella che sembrava un’affezione psicosomatica anche se non era il suo inconscio a proiettare sul corpo i dolori dell’anima. Al contrario, era la tristezza delle sue membra, mortificate dall’assenza di qualunque sfida verticale, ad infiammare in lei il desiderio di metterle all’opera. Tornò alle pendici del monte ed attese la trasformazione definitiva.
Una mattina come un’altra capì improvvisamente di essere pronta; si sbarazzò degli ultimi residui di normalità, compresi tutti quegli abiti che la impacciavano nei movimenti, ed iniziò a salire. La visione di quell’uomo sfracellato sulle rocce, con il sorriso ancora ben conservato nel ghiaccio, stranamente l’aveva inebriata: a lei non sarebbe potuto accadere. Non con le sue mani palmate, non con la sua schiena estensibile ed elastica, non con i suoi piedi ad anatomia variabile che non affondavano nella neve, non con la sua pelle impermeabile ed insensibile al freddo, non con la rapidità e la forza delle sue braccia, sempre più piatte ed articolabili. L’unica anatomia che non era mai mutata era quella del suo sesso che rimaneva turgido e roseo, sensibile al tocco ed al pensiero di uomini che aveva ospitato di rado, nel breve sofferto periodo lontano dal monte.
Quel tempo era finalmente finito ed Anna, incuneata nell’anfratto, si lasciò possedere dal monte che la coprì, con il calore di tutte le sue nevi, prima di affondare in lei come un amante dimenticato da troppo.