Nino Kervinian, cartografo
Nino Kervinian, cartografo danese, era nato a Simmendrup a 72,1 km da Kobenhaven, in una casa di due piani (di 2,78 m e 3,14 m rispettivamente per un totale esposto, comignoli compresi, di 6,62 m) situata a 718 metri dal portone del municipio del paese.
Fin da piccolo manifestò un’ossessione preoccupante per la precisione delle misure: ogni mattina infilava un piccolo decimetro nella tazza del caffelatte per misurare la profondità del liquido; cosa che annotava scrupolosamente in un quadernetto dalla copertina viola. Quando raggiunse l’età in cui gli adulti, tanto per dire, cominciano a chiedere: “cosa farai da grande?” Nino non ebbe alcuna esitazione: il cartografo. E ci riuscì rapidamente; solo che la sua pignoleria divenne un ostacolo per la carriera.
Nino misurava ogni sasso, qualsiasi piccula curva del terreno, ogni impercettibile variazione di pendenza. Nemmeno i capricci delle acque riuscivano a metterlo i difficoltà: Nino annotava tutto; esposizione minima e massima dell’argine, variazioni medie del profilo dei ruscelli, velocità dell’acqua in superficie e sul fondo, altezza ed estensione delle increspature. Solo che i suoi dati non trovavano giustizia nell’approssimazione delle carte dove le insenature più aspre si addolcivano nei semicerchi, i fiumi si asciugavano in una sottile riga azzurra mentre i rigagnoli sparivano, inghiottiti dall’invadenza grafica dei terreni.
Approfittando di un’insperata eredità (una sua lontana parente tedesca era misteriosamente morta, uccisa da un cecchino) abbandonò il reale istituto geografico Danese e si dedicò alla cartografia per puro piacere personale. Scelse il K2 per la sua impresa definitiva: cogliere la montagna nella sua immutabilità. Si trasferì in Pakistan con Anna, la sua unica figlia, ed iniziò a studiare il territorio.
Cominciò l’ascesa al monte solo dopo sette anni di annotazioni e misure sulle pendici. Nino percorreva il monte a spirale; salendo di cinque metri ad ogni giro. Se qualcosa era cambiato, però, (anche una sola scanalatura nel ghiaccio di un costone) si sentiva in obbligo di ripetere l’aggiramento per rimettere le cose a posto nella sua geografia immutabile. Dopo ventisei anni era salito di soli milleduecentoventitrè metri: e nulla poteva rassicurarlo sul fatto che, più in basso, qualcuno non avesse potuto dare un calcio a qualche pietrone rovinando così tutto il suo lavoro. Prese la sua decisione d’impulso. Si tolse tutti i vestiti e si adagiò, tremante, sopra un lastrone di ghiaccio. Nel giro di trentasei ore divenne parte del paesaggio ed oggetto irrinunciabile di tutte le cartografie future.
Aveva indubbiamente vinto.